Non so se vi è mai capitato di essere non stanchi ma stufi. E’ molto complicato rimediare alla sensazione di essere stufi; contro la stanchezza c’è il riposo, ma per porre fine all’esser stufi ci vuole ben altro. Mi capita quasi categoricamente in primavera, sotto forma di un irrefrenabile desiderio di partire, la meta poco importa basta che si parta, certo se poi la destinazione è al calduccio meglio ancora! Mi sento irrequieta, mi scopro ipnotizzata con il naso schiacciato contro le vetrine delle agenzie di viaggio, che espongono le pubblicità dei last minute di splendidi posti che ho visto solo nelle locandine Alpitour; oppure mi ritrovo a fissare la scia lasciata in cielo da un aereo, partito per chi sa quale luogo, allora, considerando la posizione del sole e l’altezza del velivolo faccio mille congetture su  quale aeroporto sia la sua destinazione. I sintomi parlano chiaro, la terapia è prescritta: ci vuole una settimana di ferie.
Nel momento in cui si è  consapevoli di essere affetti dal morbo di far away tutto sembra più leggero. Il primo passo è decidere fra gli innumerevoli sogni quale si vorrebbe trasformare in realtà, dopo di che si va in agenzia e si tenta di quantificarlo in euro per assicurarsi che sia alla portata del proprio portafogli.
Quest’anno, visto che ho iniziato il 2011 all’insegna dell’edonismo, il cui motto vorrei che fosse “ogni lasciata è persa”, ho pensato che almeno una volta nella vita amerei partecipare ad un safari. Conoscendo l’intraprendenza di PP che nella pacifica Namibia verrebbe solo se in possesso di un fucile a canne mozze, ho pensato che una settimana in Kenia, suddivisa in due giorni di safari ed il resto di mare, magari poteva essere un buon compromesso. Così, finché mi dirigo in agenzia, ne parlo con la nostra amica Laura-farmacista, la quale in meno di centoventi secondi mi smonta in piccolissimi tasselli il mio piano ben architettato, asserendo che dal Kenia spesso ha visto ritornare i viaggiatori con le malattie più strane e, conoscendo i miei problemi di salute intestinale, mi consiglia di cambiare meta cercando di evitare l’Africa.
In agenzia la nostra amica Simo mi propone un posto a Cuba dove lei è stata di recente, il cui chef è italiano ed è a prova di bomba.
Bene, è fatta. Corro a casa soddisfatta piena di depliant dalle foto ammalianti, ma PP non si ammalia neanche per idea, proprio non ci casca; questo è un particolare che avevo già previsto, infatti se lui non vuole venire sono pronta a partire da sola, attuando il famoso “piano B”!
Quello che non avevo minimamente previsto è che lui sia in ansia per le mie condizioni di salute e che non si senta tranquillo al pensiero che io vada così lontano, “ci pensi, almeno otto ore di volo”, ma vicino dove vuoi andare? Il Mar Rosso la Farnesina lo considera ancora zona a rischio, a Capo Verde in questo periodo dell’anno c’è vento, e gli altri posti sono troppo lontani anche dal mio portafogli!! Mi guarda entusiasta, con un luccichio negli occhi come se avesse avuto un’illuminazione pronta a risolvere tutti i miei problemi, io pendo dalle sue labbra in trepidante attesa finché lo sento esordire con un “ma perché non vai ad Abano Terme?”. Scuoto  la testa incredula, convinta di aver capito male, ma purtroppo non c’è nessun errore; mi crollano le braccia a mo’ di gibbone e la mia mente lascia scorrere già la classica scenetta, sicuramente sbagliata ma fortemente radicata, di me seduta nella sala TV in compagnia di simpatiche cariatidi mentre partecipo a tornei di scala quaranta, con la nebbia fuori dalle finestre che offusca un improbabile sole.. Lo so, sono meschina, sicuramente Abano è bellissimo anche i primi di marzo, è solo che non corrisponde neanche lontanamente alla meta che avevo tanto sognato.
Prendo la palla al balzo quando la situazione si mette ancora peggio; si perché al mio diniego PP riparte alla carica con un “allora potresti startene in campagna a Cavaion” ed io “ma sei scemo? Nulla da togliere alla campagna che adoro, ma tanto vale che vado a lavorare, almeno vedo un po’ di gente..” Così lo riporto sulla questione terme e mi gioco un “..allora se sapermi alle terme ti fa sentir tranquillo vado ad Ischia dove non sono mai stata, sarà un piccolo viaggio, poi c’è un mare fantastico da fotografare, dipingerò acquarelli , leggerò libri interessanti, farò un salto a Capri, e prima ancora che te ne possa rendere conto sarò già di ritorno a Verona; vedrai che di certo non mi annoierò!”
E così è andata! Il giorno stesso corro dal nostro fornitore ufficiale di guide Gulliver a prenderne una di Ischia e, mentre attendo alla cassa, noto che la ragazza intenta a pagare ha in mano un enorme guida dell’India da almeno mille pagine. La guardo con simpatia, stringendo fra le mani la mia “grande conquista” da duecentoquaranta pagine e le dico: “ inizia sempre per “I” ma  è decisamente un’altra cosa!” e lei
“beh! Sicuramente mangerai meglio di me “. Certo, è proprio uno dei miei propositi!
La prima cosa che faccio è connettermi ad internet e cercare un bel posticino dove trascorrere la mia vacanza. C’è un efficiente “servizio prenotazioni terme ad Ischia”, con personale paziente e cortese, che in un giorno di botta e risposta telefonica ha trovato la cosa che fa per me: andrò a LACCO AMENO, che già il nome mi sprona a sognare luoghi esotici! Ma si sa che nella vita c’è chi nasce con la camicia e trova tutto pronto e chi, come me, a volte, all’obbiettivo ci arriva comunque, ma con una gran fatica ed una lunga battaglia. Così, quasi a confermare il mio karma, mentre torno a casa dal lavoro, con un sorriso a settantadue denti, mi squilla il telefono e la Lella, il mio “capo”, mi chiede se posso anticipare le ferie di una settimana perché nello stesso periodo da me richiesto manca già una mia collega, e farci assentare in due sarebbe per lei un po’ difficoltoso da gestire. Sgrunt! Lo sapevo, tutto troppo liscio!
Non le prometto nulla e corro a telefonare all’agenzia, la quale mi conferma che hanno le mani legate sia perché l’albergo che ho scelto non è ancora aperto e sia perché il biglietto dell’aereo non è rimborsabile! Peggio di così.. , mi sembra davvero una missione impossibile. In un modo o nell’altro ci dormiamo su, sia io che la Lella, si sa che il sonno porta consiglio. Infatti, la mattina dopo, ha già risolto tutto con un complicato giro di sostituzioni e modifiche di orario assicurandomi la partenza e permettendomi di continuare a sognare! Che mito, meno male..
Credo che il mio entusiasmo sia evidente e contagioso perché la Giò (la mamma di PP, mia socia d’avventure culturali e non), quando le racconto di partire fra pochi giorni, fa una faccia come un bimbo di fronte al banchetto dello zucchero filato, ma si riprende in un nano secondo, vinta per il senso del dovere nei confronti del marito, della casa e del fedele ed esigente cane Attila.
Immaginavo questa risposta, così neanche provo ad insistere; ma la sindrome del fare

away non ha bisogno di aiuti, è come un tarlo, si insinua nei tuoi desideri e comincia a scavare, piano piano, lasciandoti nell’incoscienza, fino al punto in cui ti ha completamente disarmato e non ti resta che ammettere l’evidenza di avere una voglia matta di partire.

Così in men che non si dica ci ritroviamo all’aeroporto Catullo in coda per il volo su Napoli. Ad attendere la maggior parte sono napoletani in viaggio di lavoro,  che tornano a casa dopo esser stati in fiera. Nei loro impeccabili completi scuri e scarpe perfettamente lucide, li sento conversare con la loro melodiosa cadenza, così che mi tornano in mente le scene del film “Benvenuti al Sud”.
A Verona c’è un sole più che primaverile e noi andiamo in ebollizione nel nostro equipaggiamento da viaggio mentre aspettiamo che il bus ci porti all’aereo.
Sorvoliamo gli Appennini ben innevati e poi nulla, con mio sommo rammarico una coltre di nubi bianche ci impedisce di vedere altro. Difatti, arrivate a Napoli quasi piove, in più soffia un inospitale vento freddo quasi da farci chiedere se davvero ci troviamo nel “ u paes du mar’, u paes du sol’”.
Da esperte viaggiatrici saliamo sul bus che va fino al porto, durante il tragitto cerchiamo di farci un’idea di questa città di cui troppo spesso in tv si parla di fatti e situazioni spiacevoli, come la questione dei rifiuti. La Giò esprime il suo disappunto sull’usanza di stendere il bucato ad asciugare  sui balconi, asserendo che a Verona vengono invece abbelliti con bellissimi vasi di fiori. “ e poi guarda: sporcizia e cassonetti bruciati, ma ti pare?”. Io le suggerisco di parlare un po’ sottovoce, non vorrei dover assaggiare una “cinquina” di un locale ferito nell’orgoglio!
Prendiamo l’aliscafo per Casamicciola, paesino fra Ischia porto e Lacco Ameno. Mentre mi siedo sento risuonare nella mente la frase pronunciata da mio suocero, “mi raccomando Wb, bada alla Giò”, e sorrido al pensiero che l’identica raccomandazione PP l’aveva già fatta alla Giò. Siamo forse così pericolose messe insieme?!!
L’aliscafo è mezzo vuoto, i pochi turisti durante la traversata rimangono diligentemente seduti, mentre io ogni tanto vago nel tentativo di trovare un finestrino dal quale si goda una vista migliore per un’ipotetica foto.
Poco dopo la partenza, quando iniziamo a navigare a pieno regime, (ben trenta nodi, ovvero circa sessanta chilometri orari!!), inizia la giostra. Secondo me c’è l’onda lunga, quella che non fa schiuma ma fa ballare i traghetti come un piccolo ed innocuo tsunami, l’aliscafo al contrario non balla ma impenna come una moto ed ogni volta che la sua pancia scende nell’acqua fa dei sobbalzi tali da farci sentire come se fossimo a Gardaland. Gli unici passeggeri che chiacchierano pacificamente sono i “pendolari”, i quali neanche si accorgono che al di là del finestrino l’orizzonte compare ad intermittenza: “ora mi vedi, ora non mi vedi, ora mi vedi, ora non mi vedi..”.
Considerando che una corsa sulle giostre di Gardaland dura più o meno due o tre minuti, mentre di navigazione saranno stati quaranta minuti se non di più, ne usciamo un po’ provate, con il viso di un colore variabile fra il grigio topo ed il verde vescica. Non c’è da stupirsi quindi che il breve tratto che va dall’approdo nel porto di Casamicciola fino ad arrivare al nostro albergo a Lacco Ameno, percorso su di un autobus di ridotte dimensioni pieno zeppo di gente, abbia amplificato il nostro disagio fisico al punto tale da, almeno per quanto mi riguarda, sembrare una zombi intontita di fronte la segretaria delle terme che, con efficienza teutonica, cercava di pianificarmi i vari trattamenti per l’intera settimana.
La cena ed una lunga dormita nelle nostre silenziose stanzette ci rimettono in sesto, ora siamo pronte per mille nuove avventure, ma il clima ci limita un po’. Oggi il cielo è di un azzurro splendente che risalta guardandolo attraverso il giallo acido dei numerosi limoni degli alberi fuori dalle nostre finestre. Il problema sta nel fatto che il vento soffia copioso, talmente forte da flettere le palme ed i cactus statuari alti alcuni metri che sono in giardino.
Mi affaccio alla terrazza dell’albergo e guardo il mare tutto increspato, con onde bianche che si infrangono sul pontile; addirittura il vento increspa in piccole ondine anche l’acqua turchese della nostra piscina, le poltroncine di vimini sono ribaltate in più posti. Temo che non faremo molte gite oggi, ma soprattutto sorrido apprezzando la fortuna che abbiamo avuto ad essere arrivate ieri con un mare decisamente più tranquillo.
Così arriva il fatidico momento dei fanghi. Le mie esperienze vissute fino ad ora con il fango sono di tutt’altra origine, tipo quando durante un agosto di tanti anni fa, mentre ci trovavamo lungo una pista vicino al confine fra Senegal e Mauritania, siamo stati sopraffatti da un breve quanto violento temporale; in pochi minuti il solido terreno si è trasformato in un’infinita viscida distesa di argilla che, appiccicandosi alle ruote delle moto, ha reso impossibile la prosecuzione del viaggio; a pensarci bene era difficoltoso già lo stare semplicemente fermi suo propri piedi senza finire in terra, la sensazineo non era molto diversa da quella di camminare sul sapone!
Oppure quando in Marocco, sempre in moto, durante una limpida giornata di sole, siamo stati quasi travolti da una piena dell’Oued Aghedau, costringendoci a trovar scampo arrampicandoci su di un montarozzo ed attendere fino al giorno successivo che le acque ed il fango diminuissero di livello e d’irruenza; peccato che PP, nel tentativo di salvarmi, fosse rimasto sulla sponda opposta senza cibo, acqua, tenda ed il suo sacco a pelo! Cosa non si fa per amore…
Così ignara de mio futuro, puntuale alle undici e quaranta, mi presento dalla segretaria (da me soprannominata “Signorina Rottermeier”) la quale mi affida alle possenti mani della Signora Anna, un quintaletto di allegria e chiacchiera partenopea racchiuso in un’austera divisa verde da ospedaliero. Nuda come mamma mi ha fatto, mi fa distendere su un lettino coperto da un telo bianco di plastica sul quale, con un secchio da muratore pieno zeppo, ha cosparso uno strato alto almeno tre dita di fango bollente, che è pronto ad accogliere la mia tiepida schiena bianchiccia. La cosa inizialmente mi inquieta un po’ e penso che, non solo non mi obbligano a farlo, ma sto anche pagando per questo servizio o tortura che dir si voglia! Anna, vista la mia perplessità con una spintarella decisa mi distende dicendomi di non preoccuparmi ed inizia a ricoprirmi di fango caldo soprattutto sulle articolazioni. Poco dopo, passato lo schok iniziale, diventa anche piacevole, la pelle inizia ad abituarsi e la sensazione è quella di essere sdraiati su un lettino di denso budino o per di più proprio di crema catalana! Quando ormai ho assunto l’aspetto de “La cosa” dei fantastici quattro, mi incarta bene con il telo di plastica e mi copre con una pesante coperta di lana, lasciandomi lì per almeno quindici minuti. Non so perché ma questa situazione, nel silenzio della mia stanzina, mi fa pensare alla mummificazione, sarà forse per l’immobilità? Di fianco al lettino c’è la cordicella per suonare il campanello in caso di bisogno, mi domando a cosa serva vista l’assoluta impossibilità di accedervi incartata come sono.
Il timer suona e poco dopo Anna arriva a scartarmi, mi fa accomodare di fronte ad un muro, le cui bellissime piastrelle Vietri, un tempo di un bianco brillante, ora sono color “terra di Siena bruciata” dal fango che le ha decisamente tinte assumendo l’aspetto di sporche. A tal riguardo Anna mi mostrerà, nei giorni a venire quando ormai siamo in piena confidenza,  una brutta cicatrice sul suo avambraccio che si è provocata con l’acido nel tentativo di smacchiarle! Mentre fisso le piastrelle che ho di fronte, Anna afferra una doccetta mobile, dalla pressione pari all’idrante dei pompieri, e me lo spara contro, così che in un minutino sono bella che pulita. Ma non finisce qui. Nella stessa stanzetta, mentre io facevo la mummia, Anna ha riempito una grande vasca con acqua termale ad una temperatura di trentasette gradi, come da prescrizione medica, il cui calore è regolato mediante l’infallibile e precisa tecnica dell’”immergi il dito”! Gli effetti terapeutici sono amplificati dall’aggiunta di ozono. WaW! Che suono intergalattico!! Magari divento figa…. Invece non è altro che un bel po’ di bollicine che fanno ballonzolare allegramente le mie cicce. Altro timer ed altri quindici minuti. Poi la coccola successiva, il massaggio rilassante, ma talmente poco avventuroso che non vale la pena di dilungarsi. Non so se sia il fango, il bagno o il massaggio, ma mi sento così rilassata che sfioro la rimbecillagine.
Nel pomeriggio prendiamo un bus ed andiamo ad Ischia Porto. L’isola è servita da un capillare servizio di autobus che passano ad orario e nelle fermate principali si può sapere l’arrivo del prossimo mediante un display luminoso. I bus sono di dimensioni ridotte per adeguarsi al tipo di strade che devono percorrere, quindi facilmente sono pieni zeppi. Gli autisti hanno quasi tutti una guida molto sportiva, così che i passeggeri, uniti come in una Ola, possono fraternizzare e scambiarsi profumi di oli essenziali da terme o fragranze da fine giornata di lavoro.
Ischia Porto, di per se, è il classico paesino marittimo con case basse e colorate che hanno la particolarità di avere i tetti a terrazza. La cosa che mi ha colpito di più è proprio il porto, di forma perfettamente circolare, è stato ricavato dal lago vulcanico che sorgeva in prossimità della costa, al quale, verso la metà del mille ottocento, aprirono un’insenatura con sbocco sul mare per permettere alle barche un approdo sicuro. A dire il vero mi è piaciuto anche il Castello Aragonese che sorge su di uno sperone di roccia in mezzo al mare, a distanza di duecento cinquanta metri dalla costa, collegato alla terra ferma da un pontile. Salendo fino in cima si gode di una vista suggestiva, soprattutto da quella che chiamano la “terrazza degli ulivi”: Procida, il golfo di Napoli, e in lontananza Capri sono ai tuoi piedi.
Dopo la lunga scarpinata andiamo a rifocillarci in un bar immerso nel verde. Dalie, banxie fiorite ed altre rigogliose piante mi danno l’impressione di essere all’interno di un giardino botanico, invece, una volta entrati nel bar vengo catapultata in tutt’altra situazione e rimango sorpresa nel trovare l’arredo del locale di tipica atmosfera coloniale, c’era quasi da aspettarsi di vedere arrivare da un momento all’altro un cameriere in tunica bianca e turbante, ma la sensazione di teletrasporto dura poco, infatti i profumi di dolci e di caffè con la ci maiuscola, mi riportano alla realtà.
Avevo già il sospetto che i Partenopei fossero dei golosi buon gustai, ma leggendo il menù che stringo in mano, questo sospetto diventa rapidamente una forte convinzione! La lista dei caffè ne prevede almeno otto tipi diversi, alcuni dei quali non ho neanche idea di cosa siano; per non parlare poi degli snack o la più comunemente chiamata rosticceria, una lunga lista di nomi dal suono “succulento” che scatenano nel goloso lettore un aumento tale della salivazione da far invidia ad un cane Boxer. Per distrarmi faccio una passeggiata lungo il bancone, puro masochismo visto che la mia dieta non ammette sgarri. Babà, sfogliatine ed una quantità di cose che non conosco, apparentemente buonissime, sembrano invitarmi ad assaggiarle; mi volto decisa e come torno al tavolo ordino risoluta una triste tisana ai frutti di bosco.
In questo tipo di vacanza non ci si annoia di certo, si ha sempre qualche cosa da fare, appuntamento per i fanghi, il bagno termale, l’inalazione, il massaggio, a farla breve la mattina vola via senza neanche accorgersene. Il pomeriggio, invece, ci dedichiamo all’esplorazione, senza grandi aspettative facciamo delle belle passeggiate seguendo le istruzioni della mia preziosa mini guida.
Durante una di queste passeggiate ad Ischia Porto, ricevo la telefonata di un amico dei viaggi africani, uno di quelli per cui la sua jeep è la sua morosa ed anche la sua vera casa, e come ha un giorno libero parte; la meta è variabile, l’importante come al solito è partire. Come gli dico che sono alle terme inizia a far dell’ironia su come siano cambiati i miei gusti in fatto di viaggio, tipo: “oramai sei da rottamare..”. Non gli rispondo neanche, è logico che in questo istante preferirei trovarmi fra le dune dell’Erg d’Aubari in Libia, ma prima che si potrà tornarci passerà un bel po’ d’acqua sotto i ponti, purtroppo!
Il mio pensiero va a tutta la gente che sta fuggendo via dal nord Africa, che rischia la vita nel tentativo di raggiungere l’Europa che considera la sua salvezza, senza pensare che una volta sbarcati in Sicilia i  problemi non sono per niente finiti, ma almeno ha qualche possibilità in più di vivere una vita serena. E ripenso ai luoghi e negozi che conosco a Tripoli, che tristezza, chi sa se esistono ancora? Il TG continua a proporre immagini di ragazzi armati in nome della libertà, gridano a Gheddafi di andarsene, spero per loro che presto tutto si sistemi senza pesanti ripercussioni, mentre qui in albergo la vita scorre tranquilla.
Ma così come succede, per tutte le cose c’è sempre una fine, ed a metter fine, o perlomeno ad interrompere la mia tranquillità ci ha pensato Anna, la signora dei fanghi, che si è dimenticata di me!
Mi aveva incartata come al solito nel telo bianco di plastica ed avvolto con cura con la coperta di lana nella classica posizione da baco da seta, azionato il timer e mi aveva salutata con la solita frase “ce verimm arop“. Il timer aveva suonato già da un pezzo e di Anna neanche l’ombra, non che passi poi inosservata… Ad un certo punto ho tentato di liberarmi dal bozzolo per suonare il famoso campanello, ma niente, ogni movimento mi era precluso, il fango iniziava a raffreddarsi e con lui anche il mio corpo; già mi immaginavo mummificata nell’argilla piuttosto che con le bende come facevano gli Egizi. Lo scrosciare dell’acqua che sgorgava fuori dalla vasca, oramai piena da un bel po’, rendeva la mia situazione emotiva ancora più instabile, forse è questo il motivo per il quale non sono riuscita a suonare il campanello usando solo la forza del pensiero!! Non mi rimaneva che ricorrere al metodo buzzurro ma efficace di mettermi a chiamare, prima con una certa reticenza, poi quasi a squarciagola, “ANNNNAAAA”. Dal vetro opaco della porta vedevo la gente andare e venire, ma nessuno si fermava, finché è arrivata la signora “Rottermeier” che esordendo con un: “Avete suonato?” ha aperto la porta. “Si, testa a pera che altro non sei, mi spieghi come diamine avrei potuto farlo imbalsamata come sono?” Questa è la risposta che avevo in mente, invece le mie orecchie mi sentono dire un “si, la ringrazio, molto gentile…, è che il timer è suonato già da qualche minuto e non vedevo tornare la signora Anna..”. Lei non si scompone di un millimetro e mentre scompare nel corridoio sento la sua risposta perdersi nell’etere, “non vi preoccupate che arriverà”. FANTASTICO SONO SALVA!!!
Il sole sembra avere il sopravvento sulla passata perturbazione e le temperature sono quasi miti, qui la vegetazione sembra essere già in piena primavera rispetto da noi nel veronese. Le ortensie hanno già delle grandi foglie, mentre la mia a Cavaion appena accenna le nuove gemme. Dicono che la prossima settimana arrivi proprio un bel caldino, ma noi saremo di nuovo a casa immerse nel quotidiano, peccato.
Altro fango, altro bagno, altra gita. Questa volta cambiamo direzione e con il solito mini bus ci rechiamo a Forio che si pronuncia Forìo; è un paese bellissimo dove si possono fare delle piacevoli passeggiate dal centro, lungo il viale brulicante di botteghe, fino al mare, grazie anche alla sua conformazione molto ampia rispetto a Lacco Ameno. Un suo punto forte sono le ceramiche, che se non fossi in aereo e non sapessi che a casa mi aspetta PP, comprerei a vagonate, invece, come al solito, mi limito ad acquistare due cosine per Cavaion, giusto come ricordo.
Forìo si estende dalle pendici del monte Epomeo (di cui ho scoperto gli ischitani vanno molto fieri: “sapete, Procida è simile ad Ischia, ma è piatta, non tiene il monte comme a noi!” mi aveva detto la signora della reception in albergo), fino ad arrivare al mare dal lato di ponente. Qui pare che raramente, solo a chi è fortunato, sia concesso uno spettacolo di rara bellezza, ovvero ammirare un particolare raggio di luce verde visibile solo durante il tramonto.
Non oso immaginare l’emozione, visto che già un qualunque tramonto senza stani raggi mi invoglia a scattare innumerevoli fotografie. Nel posto dove siamo arrivate per gustarci lo spettacolo sorge, praticamente sugli scogli a picco sul mare, la bianchissima Chiesa della Madonna del salvataggio, con questo cielo limpido ed un mare così blu sembra una cartolina, non per niente è modella per molti degli artisti locali che la dipingono ad acquarello. All’interno si notano una serie di piccole navi, velieri o pescherecci credo lasciati come exvoto che le conferiscono una certa potenza, quella di aver avuto la meglio sulle impetuose onde del mare e fatto tornar sani e salvi uomini al loro confronto così indifesi, mi scorre un brivido lungo la schiena solo al pensiero.
Usciamo fuori e proprio in fondo alla scalinata un tassista ha parcheggiato il suo mezzo. Non si tratta delle solite auto bianche con il cartellino TAXI apposto sopra, infatti i vecchi taxi qui sono delle Ape car Piaggio dipinte con colori sgargianti, questo per esempio ha la tettoia blu sul cui bordo spiccano dei bei cuoricini rossi!! Il tassista è come il suo mezzo, consumato dal tempo, ed è tutto intento a contare i soldi dell’incasso della giornata, spero per lui che siano molti! Io non resisto a fotografarlo, ma come alzo l’obbiettivo lui, come se si sentisse osservato, si volta verso di me; colta in fallo tento maldestramente di evitare la figuraccia indicando il monte Epomeo alla Giò e scatto due foto come vengono vengono. Non potrei mai fare la reporter di professione, non ho faccia tosta necessaria, ho troppi scupoli!!
Scendiamo al molo dove sono attraccate piccole e colorate barchette, dai nomi romantici o leggendari e danzano pacifiche al ritmo della marea. Non mi sembra vero, sono da giorni su di un’isola, vedo il mare dalla finestra tutti i giorni ma non l’ho ancora toccato, così la prima cosa che faccio è quella di oltrepassare il muretto di cinta, che divide la spiaggetta dalla strada asfaltata, andare a riva ed immergere la mano nell’acqua limpida senza farmi bagnare le scarpe dalle piccole onde. La annuso, sa di buono, sa di estate. Faccio due passi sul bagnasciuga e scatto felice un po’ di foto, potrei anch’io farne degli acquarelli una volta tornata a casa!
Mentre sono lì che scatto, decidiamo di rientrare in albergo perché si sta facendo tardi, così, armate di santa pazienza, ci piazziamo alla fermata del bus.
Siamo decisamente fuori stagione ed il traffico, soprattutto qui a Forìo, è dannatamente caotico, non oso immaginare che bolgia ci sia qui ad agosto! La cosa curiosa che ho notato è che le automobili sono mediamente di piccole dimensioni. Yaris, Fiat 500, Panda, Punto, Opel Corsa, Ape car e macinini 400 diesel sono le più gettonate; effettivamente comprare un SUV per vivere ad Ischia sarebbe puro masochismo!!
Il bus, zigzagando fra un’ape car parcheggiata pacificamente in mezzo la strada e qualche auto in seconda fila, arriva con tipo mezzora di ritardo, non so perché ma la cosa non mi stupisce. La signora alla quale sono appiccicata come una cozza ad uno scoglio, mi spiega che durante l’inverno diminuiscono le corse dei bus perché, secondo l’amministrazione, c’è poca richiesta, mentre in estate ne passano di continuo; e tutta questa gente che torna a casa dal lavoro non sarà mica trasparente??!!
Con PP mi sento per telefono praticamente tutti i giorni ed è davvero sorpreso che tutto stia scorrendo liscio senza il verificarsi di guai e catastrofi che potenzialmente ci si aspetta da me e la Giò!
Dopo la bella escursione a Forìo decido di dare una seconda opportunità a Lacco Ameno per riscattarsi in onore al nome che porta, visto che passeggiando lungo il suo trafficato corso non mi aveva colpito particolarmente. Così scendo dalla collina sulla quale è sito il nostro albergo, il San Lorenzo terme, e mi addentro senza meta nei vicoletti pedonali del centro abitato armata di macchina fotografica. Si! Lo sapevo, il nome è davvero una garanzia, difatti fra le basse case massimo a due piani, costruite vicinissime l’un l’altra, c’è una piacevole tranquillità ed armonia. I colori dei muri sono pastello chiaro, i vasi di fiori o piante grasse particolarmente rigogliose, forse per il clima mite, adornano gli ingressi, mentre alle finestre tendine ricamate evitano che io sbirci frammenti di quotidiano locale. Ma la cosa che mi piace di più sono le maioliche onnipresenti; di solito vi è dipinto sopra il nome e sostituiscono la classica targa, ma sono tutte differenti, ognuno le personalizza a suo gusto, chi con velieri, chi con fiori, una di forma ovale con i bordi arricciati molto fru frù, riportava la romantica scritta “Ciro e Nunziata”.
Arrivo al porto per fotografare “il fungo”, una protuberanza di argilla che svetta dal mare a pochi metri dalla banchina, e mentre percorro il molo scorgo due pescatori, nella loro barchetta, che in silenzio con gesti sicuri e decisi rammendano la sottile rete. I loro volti cotti dal sole, consumati dal vento e la salsedine. Se ne stanno lì in silenzio, pare neanche mi vedano intenti nel loro lavoro. Io resto ipnotizzata dalla scena ferma nel tempo. La rete occupa quasi l’intera barchetta in una spessa matassa di cui io non saprei trovare ne capo ne coda, per loro invece è un libro aperto, li saluto e gli chiedo se si rompe spesso, il più giovane dei due, che avrà avuto almeno sessant’anni, senza neanche alzare lo sguardo ed interrompere il metodico lavoro, mi risponde “tutti i giorni”. Tutti i giorni? E chiedo quanto sia grande la rete. “Sei, settecento metri”. Con una faccia da ebete continuo a chiedere “Cosa? Ma è enorme! Come fate a trovare tutti i buchi?”. E lui, con tono quasi rassegnato, “…eeee! Come facciamo? Facciamo. Facciamo.” A questo punto mi sento veramente una stupida ed inopportuna turista, mi piacerebbe ascoltare i loro racconti di storie di mare, ma capisco che  “non è cosa”, così li lascio alla loro occupazione, li saluto e vado via.
Decidiamo di intraprendere il giro dell’isola in autobus. Esistono due linee che lo fanno: la circolare destra, CD, e la circolare sinistra, CS ed entrambe effettuano capolinea ad Ischia Porto. Con un euro e trenta centesimi ed all’incirca un’oretta di tempo puoi farti un’idea di come sia fatta l’intera isola. Noi, lasciamo che parta il primo CD super affollato, aspettiamo che dopo pochi minuti ne arrivi un altro, e ci accomodiamo sedute con vista panoramica come due perfette turiste fai d te, ma senza il bambinetto che scuote il dito per farti rimpiangere di non essere con l’Alpitour!!  Il mini bus, passata Ischia Porto, inizia ad addentrarsi nelle campagne collinari fino ad arrampicarsi su stradine strette e tutte curve, tanto che in alcuni tratti il nostro autista ci da prova di abilità compiendo manovre impossibili quando incrocia automobili in senso di marcia contrario, figuriamoci quando arriva l’altro bus che compie il giro dell’isola in senso opposto! Ad aver più tempo sarebbe bello scendere a far quattro passi, visitare il centro e la chiesa, scattare qualche foto e proseguire per il prossimo paesino, ma la nostra destinazione è ancora Forìo, questa volta contiamo di guardare il tramonto e poi mangiarci un’ottima PIZZA NAPOLETANA co ‘u pummarol ‘n gopp’.
Purtroppo calcoliamo male i tempi ed arriviamo quasi a tramonto finito, ma la pizza,.. la pizza.. Abbiamo indagato da più fonti prima di recarci a colpo sicuro in una pizzeria che non fosse per turisti ma per veri buon gustai. L’aspetto esterno era assolutamente anonimo, anzi, io non avevo neanche capito bene da dove si entrasse e se si trattasse di una rosticceria o di un bar, ma dando ascolto al naso, seguendo al scia del profumino che aleggiava nei dintorni, ci ritroviamo sedute a tavola, in una sala abbellita da quadri ed oggetti davvero singolari, ma la pizza era davvero degna delle aspettative!!
Per tornare in albergo prendiamo un taxi, ma non un ape car, il cassiere della pizzeria ne chiama uno per telefono e dopo pochi minuti arriva una specie di furgoncino da una decina di posti dalla forma se si può dire.. ristretta! Non ne avevo mai visti fatti così, magari li fanno in Cina apposta per luoghi dalle strade così strette! Il tassista, simpatico e loquace come gli altri isolani, ci racconta che vista l’assidua presenza di politici alle terme, è stato costruito un ospedale fornito di tutto, addirittura sala rianimazione da otto letti (?). Ma quando inizia a lamentarsi del traffico, mi torna in mente il film Jhonny Stecchino: i’ ttraffico.. . Pare che l’isola d’Ischia, già nella bassa stagione, sia il posto più trafficato d’Europa, con il rapporto abitanti/automobili più alto, figuriamoci in estate. Esisterebbero delle leggi che limitano lo sbarco alle auto napoletane ma secondo lui, come spesso accade, non ci sono gli adeguati controlli. Così è.
Oggi tutti i nostri battaglieri programmi sono stati annullati da un forte mal di testa della Giò, così anche io mi sono un po’ riposata, ho dipinto un piccolo acquarello ed ho fatto due passi. L’isola di Procida andremo a visitarla alla prima occasione, tanto da lì non si sposta, e poi, a conti fatti, sono più che soddisfatta di come sia andata la nostra settimana.
Da quando sono qui per la prima volta posso ammirare l’alba, il nostro traghetto parte prestissimo, così siamo fuori dall’albergo che è ancora buio, ma oltre il nero pece del mare inizia ad intravedersi una striscia blu cobalto e piano piano degrada fino a quasi un arancione, vorrei restare a guardare il mutare dei colori, ma il nostro socio di viaggio toscano è tremendamente ansioso e nonostante noi siamo in largo anticipo teme di perdere il traghetto, così salgo in taxi senza voltarmi.
Le allegre chiacchierate con la Giò durante i pasti, con quella splendida vista mare, mi torneranno spesso in mente.
Ci ritroviamo così in aereo a guardare le nuvole sotto di noi mentre voliamo verso nord, verso le nostre case, i nostri cari ed i nostri mariti che con un gran sorriso sono fra la piccola folla che attende in aeroporto davanti all’uscita. Sorridono perché gli siamo mancate o perché pensano: “anche questa volta scampato pericolo, sono tornate a casa sane e salve..!!”, chi può dirlo????
Alla prossima avventura
wb