Vi invitiamo a leggere queste belle note , scritte dalla nostra affezionata cliente Paola Pedrini, gran lettrice e viaggiatrice, nonche’ collaboratrice della rivista on line www.motortravel.it

CAMBOGIA

“Appunti di viaggio”

«Lo spirito del viaggiatore non deriva da un’impronta impressa da una forza esterna ma dal modo in cui il viaggiatore utilizza le idee, le impressioni e le percezioni raccolte mentre è in movimento», scrive Eric J. Leed in La mente del viaggiatore continua «…il viaggio genera una forma di ragione, un punto di vista, una coscienza di sé basata sull’osservazione del mondo e dei suoi vari contesti e ambienti».

Lo scopo di questo libro è quello di descrivere il mio punto di vista e le mie percezioni dopo un mese trascorso in una terra sorprendentemente generosa, ricca di meraviglie naturaliste, tesori d’arte inestimabili e di gente dignitosamente povera.

Ma questo libro vuole essere anche una guida pratica e concreta, utile per imparare a muoversi in un Paese a tratti ancora selvaggio e disastrato. Piccoli consigli che regaleranno piacevoli sorprese ma anche scomode verità di una terra che sta cercando con tutte le sue forze di dimostrare qualcosa al mondo, una terra terribilmente affascinante come la Cambogia.

SIEM REAP e ANGKOR

Le prime due notti trascorse a Siem Reap dormire è stato impossibile. Sarebbero state solo le prime (ma io ancora non potevo saperlo) ore insonni trascorse nelle caotiche città asiatiche.

Urla e risate di ragazzini, motorini dalle marmitte snervanti, latrati di cani affamati e nervosi, generatori, clacson e zanzare.

Larghe strade e viali alberati si intrecciano tra loro, gruppi di palme nascondono case che assomigliano più a baracche mentre i motorini corrono incoscienti a tutta velocità, come se il poterli guidare fosse una conquista da mettere continuamente in mostra.

Sembra che rumore sia sinonimo di modernità e caos di progresso, mentre ordine, organizzazione e rispetto siano prerogative riservate solo ai luoghi di culto.

Siem Reap è di dimensioni contenute e facilmente visitabile, ma l’impatto con questa città fatta di rumori, motori, grida e odori è spogliante di forze, pensieri e di tutti i preparativi fatti prima di partire.

Il nome Siem Reap si può tradurre con “Siamesi spianati”, dalla riconquista da parte degli eserciti Khmer delle province che i Siamesi avevano occupato dopo il declino di Angkor. Quando i primi esploratori francesi, nel XX sec., scoprirono l’esistenza di Angkor, Siem Reap era poco più di un villaggio. Iniziò a svilupparsi accogliendo le prime ondate di turisti dopo la restituzione del complesso dei templi ai dominatori francesi, nel 1907. Fino alla fine degli anni ’60 l’intera regione di Siem Reap rimase una delle principali attrattive turistiche della Cambogia e di tutta l’Asia ma, con lo scoppio della guerra entrò in lungo periodo di torpore per risvegliarsi soltanto verso la metà degli anni ’90.

Marco Del Corona in Cattedrali di cenere descrive così Siem Reap durante la sua prima visita: «Era il regno degli alberi, Siem Reap. Nel 1994 accoglieva il viaggiatore in un’ombra pastosa che emanava dal piccolo fiume. Le piante affollavano l’area che sembrava il centro, costeggiavano le strade, vi si piegavano sopra. Era una città silenziosa…quando calava la sera il silenzio cominciava a mordere».

Ora il silenzio non morde più, rumori e parole invadono anche le ore più tarde della notte. Il centro di Siem Reap da piccolo villaggio risulta oggi caotico e intasato da auto e motorini, hotel, ristoranti, bar e negozi. Si trovano ovunque anche se rimane una cittadina di dimensioni relativamente moderate, facile da visitare a piedi e ancora verdeggiante.

Grandi viali alberati e vecchi negozi francesi le donano ancora un certo fascino coloniale ma il futuro è rappresentato da alberghi lussuosi a cinque stelle da ristoranti internazionali con aria condizionata.

Nei pressi del centro si trova il mercato vecchio, Psar Chaa, dove è possibile fare acquisti e iniziare a conoscere i sapori della cucina cambogiana.

Gli ingredienti principali della dieta Khmer sono essenzialmente riso e pesce, dono delle fertili risaie e dei ricchi corsi d’acqua, accompagnati sempre da verdura e frutta fresca,; la tradizione gastronomica è molto legata a quella del Vietnam, della Thailandia e della Cina, mantenendo comunque una sua precisa struttura e con l’uso di spezie e aromi più moderato, spesso aglio e peperoncino vengono serviti a parte. Baguette e croissant, souvenir del passaggio dei francesi, si trovano ovunque, dai grandi ristoranti alle bancarelle lungo le strade. La baguette ormai diventata la forma di pane nazionale è molto apprezzata anche dai viaggiatori occidentali più restii ai cambiamenti alimentari.

Per gli amanti della quiete che desiderano lasciare per qualche ora il traffico cittadino è d’obbligo una passeggiata lungo la strada che porta al lago dove non ci sono ancora né hotels né ristoranti ma solo la quotidianità e la quiete dei cambogiani.

A circa 4km dalle rovine di Angkor Wat, e solo a 2km dalla zona dei grandi alberghi di lusso, si trova il Museo delle Mine Antiuomo aperto solamente nel 1999. Si compone di un edificio di ferro ondulato circondato da una manciata di semplici capannoni.

Il suo fondatore e direttore è il signor Aki Ra, autore cambogiano del libro Non calpestare le farfalle, orfano, è stato educato fin da piccolo a diventare un bambino soldato sotto la dittatura dei khmer rossi di Pol Pot prima e poi alleato del nemico, l’esercito invasore vietnamita. Specializzato nel disseminare le mine, Aki Ra ha vissuto in pieno gli orrori della guerra che ha devastato la Cambogia; dagli anni novanta fa parte delle forze dell’ONU che operano nella sua patria, vive con la moglie e i figli a Siem Reap dove ha aperto questa casa-museo per ragazzi orfani o mutilati dalle mine e dove espone chiare testimonianze storiche del suo passato e di tanti altri bambini soldato come lui.

Oggi le mine antiuomo inesplose sul territorio cambogiano sono circa 6 milioni, la maggior parte delle quali si trovano sul confine con la Thailandia; ed è qui che Aki Ra lavora regolarmente, andando a bonificare i terreni.
Nel 2000 il museo fu oggetto di critiche da parte delle autorità locali ed Aki Ra fu più volte messo in carcere; attualmente Il Museo delle Mine antiuomo svolge ancora la sua attività ma non può chiedere un biglietto di ingresso ai turisti e non riceve alcun finanziamento del governo. I ragazzi che abitano qui vivono con il sostegno delle offerte al museo che permettono loro di frequentare la scuola salvandoli da un futuro da mendicanti.

Siem Reap è la città più vicina e porta di accesso ai templi di Angkor capitale dell’antico impero Khmer. Rappresenta il più grande edificio sacro del mondo, perfetta fusione di creatività architettonica e spirituale.

Proposta oggi come ottava meraviglia del mondo, Angkor Wat è il cuore, l’anima e l’ orgoglio della Cambogia. Oggi è meta di pellegrinaggio per tutti i cambogiani e tappa obbligatoria per i viaggiatori.

Decido di trascorrere tre notti a Siem Reap per visitare in tutta tranquillità l’imponente struttura dei templi che formano un gigantesco rettangolo di 1,5km e 1,3km per lato circondato da un fossato largo 190m.

Le mura di questi templi hanno visto la potenza e la gloria del popolo Khmer, sono state macchiate di sangue ascoltando le urla di uomini, donne e bambini uccisi sotto il regime di Pol Pot e stanno ora iniziando ad assaporare il piacere di essere di nuovo ammirate e venerate.

Questa opera di straordinaria bellezza che emerge dal profondo della giungla cambogiana non può essere paragonata a nessuna riproduzione che vanti tanta severa perfezione.

Tiziano Terzani nel 1993 scrive: «Angkor è splendida ora. E così va vista. Vista oggi come la vide nel 1860 con immenso stupore Henri Mouhot, naturalista francese che viaggiava nell’Indocina appena diventata colonia… ci sono vari modi per avvicinarsi ad Angkor, io dopo aver letto un po’ di quel che negli anni si è accumulato nella mia biblioteca e soprattutto dopo essere stato una decina di volte a vagare nell’immenso parco dei templi, ho scelto per i miei figli l’approccio più naturale: niente lezioni preparatorie, niente carta da portarsi dietro. Solo la propria pelle, permeabile come una spugna».

Senza presunzione storica o architettonica farò miei due siti che hanno maggiormente attirato la mia attenzione: il Bayon e il Ta Prohm.

Il primo è formato da torri a forma di tiara, centosettantadue giganteschi volti alti sette metri ti fissano sorridenti, un sorriso enigmatico e senza tempo, il famoso sorriso Khmer. La pietra sembra respirare solo per gli dèi, una raffigurazione palpabile del potere divino. Vano rimane ogni tentativo di descrizione di questo fiore di loto in roccia. Orrore e incanto in Cambogia sembrano andare di pari passo mentre Angkor è sempre stata una battaglia tra la natura e gli esseri umani. Così immateriale nella sua perfezione tanto reale dopo essere stato ritrovato.

Tra i labirinti di questi templi vive un popolo di mendicanti, monaci, bambini, donne con la testa rasata, uomini ridotti a moncherini in esposizione su una sedia a rotelle. Chiedono l’elemosina nella penombra tra le luci che filtrano dalle fessure delle pietre e pregano, pregano continuamente avvolti dal fumo degli incensi, in ginocchio chini con la testa verso la terra.

Il Ta Prohm è un santuario letteralmente seppellito dalla giungla; la natura selvaggia si è ripresa il suo posto e tutte le tonalità del verde sembrano essere concentrate in questo luogo. Radici e liane si sono impossessate della pietra, alberi giganteschi crescono radicati in cima alle torri, angoli cupi e bui lasciano spazio a una luce che filtra come in un fondale marino. Il Ta Prohm è uno dei templi che maggiormente ha risentito dei saccheggi e della violenza della vegetazione. Si dice che un tempo nel Ta Prohm vivessero 72.200 persone, tra cui 2.470 monaci e 600 danzatrici belle come le apsara, le ninfe celesti scolpite sui muri.

All’ingresso principale del complesso di Angkor wat, ambulanti che vendono ogni sorta di contraffazione passano qui le loro giornate insieme ai guidatori di tuk tuk pronti ad accompagnarvi ovunque per qualche dollaro.

Lasciare il complesso dei templi è come un cambio di scena. Camminare accarezzando con le mani le mura, seguire il profilo delle incisioni con le dita lascia nostalgicamente inebriati per sempre.

Il cambio di scenari in Cambogia non è un fatto che deve sorprendere. Rientrata dai templi a Siem Reap preparo l’itinerario per i prossimi giorni. Giorni di lunghi spostamenti dove non si ripresenterà più la possibilità di ammirare un tale fasto di perfezione e maestosità ma mi avvicinerò sempre più alle tradizioni, alla quotidianità e al cuore del popolo cambogiano.

Kampot

Avevo previsto come prossima tappa Battambang, elegante città fluviale con edifici coloniali meglio conservati del paese ma la mia guida dice di non potermi accompagnare perché le condizioni delle strade sono impraticabili e il trasporto tramite barche, che offre la navigazione forse più scenografica della Cambogia, è momentaneamente sospeso a causa delle piogge.

Decido quindi di spostarmi verso la costa meridionale per raggiungere la località di Kampot.

L’unica strada che raggiunge Kampot da Siem Reap è quella che passa per la capitale Phnon Penh. Dista circa sette/otto ore di macchina, a seconda delle condizioni del tempo e delle limitazioni delle strade in quel momento.

L’autista non lascia libero arbitrio né all’aria condizionata né alla velocità del veicolo; se avete freddo portatevi una felpa e se avete paura allacciatevi le cinture di sicurezza (quando ci sono). Detto questo si può sempre provare a chiedere con i dovuti modi di abbassare l’aria condizionata o di rallentare la corsa magari offrendo un paio di sigarette al taxista durante il tragitto.

Di solito si parte alla mattina di buon’ora perché a seconda del periodo dell’anno, non è difficile imbattersi in piogge improvvise e molto violente: gli autisti cambogiani sono ovviamente abituati a guidare in queste condizioni e sicuramente non si fermeranno, come non si fermano i motorini, le biciclette, i venditori ambulanti, i lavoratori all’aperto. Le attività quotidiane continuano, non curanti della pioggia, che vi assicuro è straordinariamente violenta, i bambini a piedi nudi corrono e giocano nel fango e spesso qualcuno ne approfitta per farsi una doccia con tanto di sapone in mezzo alla strada o nel cortile di casa, nudo o vestito.

Sono così i cambogiani. Hanno imparato, o forse lo hanno sempre saputo, a convivere pienamente con la natura, anzi, ad approfittarne, con un fare di dolce tranquillità e moderata euforia, rassegnati a qualcosa di più forte, di ingovernabile che si può solo assecondare.

Ovviamente la pioggia non mi ha abbandonato per tutti i 465km di strada, a volte più prepotente a volte più leggera ma, guardando il cielo, si riusciva a intravedere un marcato arcobaleno che circondava a semicerchio i raggi deboli del sole, mentre a ristorare il mio viaggio ha pensato l’autista offrendomi cavallette fritte.

Il consiglio è quello di armarsi di uno spiccato spirito di adattamento e prepararsi a sperimentare gusti insoliti e raccapriccianti cercando di entrare nella mentalità khmer, per cui tutto ciò che serve a nutrire il corpo è accettabile.

Arrivata finalmente a Kampot la prima impressione è stata quella di trovarmi in un’affascinante città coloniale elegantemente in decadenza che sorge sulle rive del Prek Tuk.

Attraversando in taxi la città si possono notare subito i differenti accostamenti architettonici: palazzi d’epoca accanto a baracche, stanze aperte sulla strada che fungono da abitazioni accanto a palazzi di cemento disabitati e ormai in rovina.

Stanca e desiderosa di una doccia mi sono fatta accompagnare alla Sen Monorom Guesthouse segnalata dalla guida come “un buon affare per i viaggiatori a budget limitato che desiderano una dose extra di confort” (anche se resta sempre un po’ soggettivo il giudizio degli alloggi da parte delle guide turistiche). Dopo aver dato un’occhiata alla stanza ho contrattato il prezzo e deciso di fermarmi per due notti a 5$ a notte; effettivamente confortevole, rispetto a quella di Siem Reap, un letto grande, pavimento in parquet, acqua calda e molto pulita con ventilatore.

I cambogiani non sono un popolo particolarmente gioioso, sfoggiano il loro enigmatico sorriso khmer senza esagerate manifestazioni di vivacità; alcuni vivono in condizioni di estrema povertà, sopravvivono appena nelle campagne e molti vivono in strada elemosinando nelle città più grandi ma, nonostante questo, sono piacevolmente tranquilli e amabili, non sono molto chiacchieroni con i turisti ma sempre disponibili ad ogni richiesta. Combattuti tra timidezza e curiosità non sono mai invadenti, osservano gli stranieri tra silenzi e sorrisi aspettando un cenno per poter intervenire. Il turista che visita queste terre cerca solitamente tracce di quei 3 anni, 8 mesi e 20 giorni, così ricordato e chiamato dai cambogiani il periodo del regime di Pol Pot.

Secondo la filosofia e il modo di pensare buddhista, ciò che è accaduto è ormai passato, influirà sulle esistenze future ma non tocca a loro giudicare ciò che è ormai accaduto. Per questo motivo la maggior parte dei cambogiani non ama parlarne ed è cosa gradita che il turista rispetti questo volere.

Kampot è una cittadina molto tranquilla e di modeste dimensioni ma si può trovare tutto, locali per mangiare o bere qualcosa, piccoli market che tengono ogni tipo di articolo, phone e internet centre e molte bancarelle lungo le strade che offrono ogni specialità culinaria cambogiana a prezzi veramente convenienti.

Fino a metà degli anni ’90 era considerata ancora provincia pericolosa per la presenza dei khmer rossi sulle montagne circostanti ma oggi è estremamente sicura e gli abitanti sono molto più cordiali rispetto a quelli che vivono nelle città.

Piove ancora e io non sono una cambogiana, quindi, infilo il mio K-way giallo appena acquistato a mezzo dollaro e mi incammino al ristorante più vicino per la cena, il Little Garden bar; è gestito da una gentile signora francese e collaboratori del posto, si possono trovare piatti khmer o internazionali e buonissime baguette francesi ideali per la prima colazione e non solo. Ho cenato con il più gustoso fish and chips che io abbia mai mangiato in tutta la mia vita, veramente fresco e leggero, croccante al punto giusto, accompagnato da una birra locale Angkor.

Essendo una cittadina fluviale affacciata lungo il fiume Bokor offre specialità di pesce aromatizzati con spezie locali, in particolare è assai nota per la produzione di un ottimo pepe.

La vita notturna è abbastanza limitata e mi ritiro quindi per un sonno ristoratore.

La mattina, sempre sotto la pioggia faccio colazione ancora al Little garden per fare due chiacchiere con la signora e perchè offre scelte locali e internazionali, baguette con burro e marmellata e un ottimo caffè nero, uno dei migliori tra quelli decaffeinati; gironzolando per Kombot e scattando qualche foto mi informo da un taxista per un escursione al parco nazionale di Bokor, una delle più grandi aree protette della Cambogia. Vengo subita circondata da diversi ragazzi che offrono tutti il loro miglior prezzo per accompagnarmi e devo dire, mi sono sentita un po’ impacciata e in leggero panico ma, senza reale motivo; ho scelto una guida, ho contrattato e siamo partiti.

All’interno del parco nazionale, a circa 1000m di altezza, si trova una piccola città fantasma, ormai abbandonata, un casinò, un tempio, una chiesa cattolica, un vecchio albergo e una stazione climatica oltre a diverse cascate naturali; la guida dice …una volta completata la strada…e non accenna ad altro. Siamo partiti con una Yunday in pessime condizioni, ho pagato 5$ l’ingresso del parco e ho percorso quasi tre ore di strada sterrata, schivando enormi massi, presumo da poco caduti, cercando di uscirne viva senza annegare nelle enormi pozzanghere. La guida non ha aperto bocca e io ho continuato a fumare una sigaretta dietro l’altra pensando sempre che fosse l’ultima.

Ho visitato internamente ogni edificio tra banchi di nebbia, raffiche di vento, pioggia e brevi spiragli di sole, anche dalle foto scattate si può sorprendentemente notare questo cambiamento climatico così netto da sembrare irreale e devo dire che l’atmosfera è misteriosa e penetrante ma…il mio mal di schiena mi dice …ne valeva veramente la pena? Si, ogni testimonianza di quello che era prima e durante il regime dei khmer rossi vale la pene di essere visto.

Ritorno con una Yunday in pessime condizioni, ho percorso quasi tre ore di strada sterrata, schivando enormi massi, presumo da poco caduti, cercando di uscirne viva senza annegare nelle enormi pozzanghere. La guida non ha aperto bocca e io ho continuato a fumare una sigaretta dietro l’altra pensando sempre che fosse l’ultima.

Arrivati finalmente a Kombot chiedo alla guida ogni quanto accompagna i turisti in questa escursione, ogni giorno, mi risponde.

Mi concedo, senza ombra di dubbio un massaggio al Seeing Hands Massage, situato lungo il fiume, dove i massaggiatori non vedenti sono istruiti nei trattamenti shiatsu e i proventi sono destinati alla loro assistenza o a chi come loro soffre di questi disturbi. 1 ora 4$.

Esco e mi sento un po’ frastornata ma, soprattutto affamata; decido di provare il Ta Eou Restaurant, sul fiume dal lato destro del ponte, segnalato dalle guide per i piatti di pesce, in particolare il miglior granchio al pepe. Per percorrere questa strada serve senz’altro una pila perché si trova completamente senza illuminazione, che io ho lasciato in stanza, quindi, tra una pozzanghera e l’altra, arrivo in questo accogliente e affollato ristorante e invece del granchio, che non è tra i miei piatti preferiti, decido per un classico ma rassicurante riso alla piastra con pesce. Ottimo veramente, birra Angkor e banane. 3$.

Mi sveglio nel mezzo della notte sentendo bruciare alcune parti del corpo, proprio i punti dove ha pressato maggiormente il massaggiatore, strana ma piacevole sensazione di benessere.